martedì 28 febbraio 2012

Etica di fine vita (prima parte)



Se la vita è una risoluzione continua di problemi, negli ultimi venti anni anche la morte lo è diventata. Non è facile parlarne, perché nessuno di noi ama ricordare che arriverà non solo il tempo di non esserci più, ma soprattutto il tempo di prepararsi al passaggio e di compierlo. Si è detto e scritto molte volte della difficoltà di parlare della morte, di rendere più vicino e visibile il concetto e anche l’evento in sé, ma c’è poco da fare: in questa cultura, finora così tesa al mascheramento delle realtà, la morte è rimasta un affare di pochi, cioè di quelli che vi incappano … 
 Una bella storia che riguarda Siddharta il Buddha narra di una donna che bussò alla sua porta, perché aveva perso il figlio e desiderava essere consolata. Il Buddha le disse che era possibile, ma che avrebbe prima dovuto fare il giro della città e cercare una famiglia in cui non fosse morto nessuno. La donna si avviò e percorse le strade, bussando ad ogni porta, e tempo dopo se ne tornò dal Buddha, avendo compreso che la morte tocca chiunque: in città, infatti, non vi era nessuno che non avesse perso un marito, un fratello, una figlia, una madre...



In campo medico da alcuni anni ci si pone la domanda su come affrontare le scelte etiche che riguardano la fine della vita. Roberto Lala, attuale Presidente dell’Ordine dei Medici di Roma, scrive che “non esistono verità oggettive su temi che coinvolgono così profondamente le radici della nostra esistenza”.


Proveremo a focalizzarci su due aspetti: quello scientifico e quello spirituale.


La scienza e la morte


Le scoperte in campo medico consentono di tenere in vita le persone molto a lungo anche in condizioni estreme. Ma quale è il limite che non bisogna superare? E chi lo stabilisce? 
Le cronache degli ultimi anni ci hanno raccontato storie da far rabbrividire, a volte trattate dai media e dalla politica con un cinismo esaltato e inconcludente. CHI ha il diritto di decidere che fare del veicolo fisico di qualcuno? È evidente che l’idea fa tremare e apre scenari da incubo. Per questo il dibattito etico e scientifico devono procedere di pari passo. 
La soluzione più ovvia è che sia la persona stessa a decidere il destino del suo veicolo fisico, una volta che la coscienza si sia trasferita su un altro piano, sia che il veicolo ancora in parte risponda ai requisiti necessari alla vita sia nel caso che abbia completamente cessato la sua attività e quindi la sua funzione. 


Lo sviluppo tecnologico comporta due questioni: la prima è la quantità di responsabilità che i medici si trovano a dover gestire in simili situazioni, responsabilità legata alle diverse scelte che si possono fare, in accordo con la persona e con i suoi familiari; la seconda è che, dopo il dispiego della tecnologia, se poi la morte subentra, essa diventa più difficile da accettare – e a livello mediatico sappiamo bene come la collettività si scateni. Lala infatti, giustamente, sottolinea che “lo spostamento in avanti dei nostri limiti fa credere a qualcuno che non vi sia più alcun limite”. 
La riflessione etica è perciò tanto più urgente quanto più avanzano le prospettive medico-tecnologiche. 
Il Comitato nazionale di Bioetica, nel luglio del 1995, ci ha ricordato che “la fine della vita umana rappresenta non un tema, ma il tema fondamentale della nostra esistenza, perché investe la radice stessa del rapporto che siamo in grado di stabilire con noi stessi e con il mondo esterno.” 
Il più recente Codice di deontologia medica italiano, considerato uno dei più avanzati del mondo, ha reso questo un argomento centrale, con gli articoli che riguardano l’accanimento diagnostico e terapeutico, l’eutanasia e il tema fondamentale delle direttive anticipate (vedi Nota 1). Esse traggono ispirazione dalla Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano nei confronti dell’applicazione della biologia e della medicina. Il riguardo per i desideri espressi dalla persona sono stati riconosciuti e ratificati nella legislazione italiana (vedi Nota 2)
Cosa desidera la persona malata gravemente e che soffre? Luigi Conte, Past-President dell’Ordine dei Medici di Udine, sintetizza così: “Il malato grave non vuole morire, ma essere liberato dalla sofferenza, e i medici chiedono di poter rispondere con serenità a chi teme che il corpo e lo spirito siano sfigurati dal dolore, umiliati dalla perdita di coscienza e devastati dal decadimento dell’organismo e della mente. È un desiderio che accomuna tutti, e noi dobbiamo cercare le cose che ci uniscono”. 


I medici si fanno delle domande, e le persone coinvolte nel processo di fine vita se ne fanno altre. Non sempre le considerazioni coincidono. A volte i malati gravi vogliono morire eccome, e non solo per porre fine alla sofferenza fisica su se stessi, ma per porre fine al penoso andirivieni, nell’ambito familiare, che la loro situazione comporta. E non perché, come qualche facile cinico potrebbe ribattere, un familiare o un amico non voglia “stare vicino” alla morte, ma perché il processo di lutto comincia nel momento in cui si scopre che la situazione è irreversibile e che procederà velocemente, che il mondo conosciuto fino a quel momento è destinato a scomparire e che la logica delle cose verrà sconvolta dalla morte. Un tale processo di lutto ha dei limiti di sopportazione, per tutti. Di questo il campo medico fa fatica a tenere conto, e benché poi, per la maggior parte del tempo, si sia costretti a seguire alcuni binari obbligati, su altre questioni e valutazioni il dibattito è tutt’altro che concluso. 
Abbiamo la necessità che il dialogo sia libero, le informazioni precise, le carte da firmare e da lasciare a chi deciderà per noi non troppo complicate. Come riporta Antonio d’Avanzo, Presidente dell’Ordine dei Medici di Avellino, “il consenso informato, per essere efficace e vincolante, deve essere personale, consapevole, libero, gratuito, espresso in modo chiaro e incontrovertibile, attuale, specifico e revocabile”. Il consenso a uno o un altro dei trattamenti possibili si scontra sui tempi in cui le volontà sono state espresse (saranno ancora valide?) e sulla molteplicità di talune manovre cliniche, diagnostiche, chirurgiche, spesso collegate tra loro, per le quali sarebbero necessari una serie di consensi o dissensi specifici. 
Il DDL approvato alla Camera nel luglio 2011 ha visto in campo un dibattito senza fine, con la presentazione di più di 2000 emendamenti al progetto di legge. Ciò che ne è risultato ha avuto giudizi molto controversi. Da una parte, l’idea è che finalmente si abbia a disposizione “un buon testo, saggio ed equilibrato, che rende finalmente obbligatorio il consenso informato, permettendo al paziente di scegliere le terapie. Con questa legge il cittadino potrà dare indicazioni al medico per quando non sia più in grado di intendere e di volere, prolungando il prezioso rapporto di collaborazione e fiducia che si instaura tra medico e paziente”. Tuttavia tale idea non è stata per niente largamente condivisa, come dovrebbe essere per una legge così fondante per una cultura come la nostra. Il Presidente della Commissione d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale Ignazio Marino, medico, si è detto convinto che il Parlamento abbia sostanzialmente scritto «una legge con cui si dice al medico che se il paziente è morto si possono sospendere le cure» (Corriere on line, 12 luglio 2011). Il DDL è comunque fermo in Senato da mesi. 




Nota 1
Codice di deontologia medica 2011 

Articolo 16: Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. 
Articolo 17: Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte. 
Articolo 38: Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi, e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa. 
Il medico, compatibilmente con l’età, con la capacità di comprensione e con la maturità del soggetto, ha l’obbligo di dare adeguate informazioni al minore e di tenere conto della sua volontà. In caso di divergenze insanabili rispetto alle richieste del legale rappresentante, deve segnalare il caso all’Autorità Giudiziaria; analogamente deve comportarsi di fronte a un maggiorenne infermo di mente. 
Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto, nelle proprie scelte, di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato. 


Nota 2 
Convenzione di Oviedo 

Articolo 9: Desideri precedentemente espressi. I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione.



“Tu che non sai come la vita sia molto di più del tempo che passa

fra il momento in cui si nasce e il momento in cui si muore,

su questo pianeta dove gli uomini fanno miracoli per salvare un moribondo
e le creature sane le ammazzano a cento, mille, un milione per volta.”

 

Oriana Fallaci, Niente e così sia