Chi è Giulia d'Ambrosio

Una volta un caro amico mi disse che il mio curriculum ufficiale “rendeva nervosi” perché ci sono troppe voci. Il fatto è che non sono mai riuscita a occuparmi di una cosa sola. Non nego che un po’ di dispersione ci sia stata; tuttavia ho sempre mal tollerato di annoiarmi. Ho continuamente seguito l’istinto di prestare ascolto a ciò che mi incuriosisce, cercando di approfondire gli argomenti che risuonano come qualcosa di conosciuto e sconosciuto allo stesso tempo. Ho scoperto persone, situazioni, materie che parlano una loro lingua e che sembrano poter dire quello che la lingua ufficiale non può esprimere.

Seguire certi filoni continuando a fare il medico, la psichiatra e la psicoterapeuta non è semplice, perché l’approccio scientifico odierno è incapace di ascoltare l’invisibile. Però penso che non sia possibile aggiungere nulla di nuovo al mondo se non si prova a protendersi verso l’invisibile e l’indicibile; è inutile farsi le domande come se le fanno tutti, è inutile girare intorno, con altre parole, alle solite risposte.

Sono un medico ma non sono un guaritore – riferendomi al relativo archetipo. Ci sono persone che hanno una dote speciale per guarire gli altri. Invece, ho un impatto diverso sul mondo: sono una che tesse ponti, che apre strade e finestre panoramiche. Imparo molto dalla vita di chiunque.
Non mi piace suggestionare gli altri. Non mi è mai piaciuto usare meccanismi di potere. I rapporti che ho con le persone, pazienti o no che siano, sono improntati a un senso di chiarezza. Ci sono delle regole da rispettare perché le cose funzionino, ma non è una peculiarità del mio lavoro: tutto il mondo si regge sulla certezza di trovare ogni cosa al posto giusto nel momento giusto.

Spesso le persone mi chiedono come lavoro. Lavoro con tutto quello che so.  La difficoltà più grossa è che la gente spesso non sa parlare di sé. Non sa come si fa. Quando lo sa, per quanto lungo possa essere il percorso, per quanto grave la ferita, uscirà prima o poi dagli scogli.
L’altra difficoltà è la mancanza di fantasia. Le persone faticano a leggere, osservare i quadri, cimentarsi con il colore; non imparano a suonare, a cucinare, a cantare; non conoscono il cinema e il teatro come forme d'arte che parlano alle parti più antiche dell'Anima. Non pensano. Non scrivono diari e riflessioni. Non vedono e non imparano a raccontarsi.

Una terza difficoltà è trovare la passione. La passione per l’enigma che rappresentiamo a noi stessi e un sano distacco da questo enigma, contemporaneamente, rappresentano un elisir di lunga e felice vita.
Un quarto ingrediente sono i sogni, quelli che si fanno dormendo. Ci sono tanti modi per lavorarli, lo psicodramma junghiano li batte tutti.

Nel curriculum ufficiale sono nominate le persone e le situazioni con cui ho costruito la professionalità. Rappresentano forse la metà di ciò che ho imparato. Qui c’è l’altra metà.


Cosa ho imparato e da chi, ovvero: le persone fondamentali nella mia carriera di essere umano.


Mia Martini
La musica sarà sempre il nucleo fondamentale intorno a cui ruota la mia esistenza. Penso di essere nata in un periodo fortunato – quello del beat, del rock, dei cantautori italiani e dei grandi interpreti. Molta della filosofia con cui vivo ha le parole dei Beatles e di Fabrizio de Andrè (che ha accompagnato la mia tormentata adolescenza e tutti gli anni dopo. Anche ora sto leggendo un libro su di lui); quando lavoro per i fatti miei, ascolto rock classico; la musica classica mi è utile per evocare immagini dal profondo; la voce di Mia Martini, anche oggi, evoca l’infinito, ahimè irraggiungibile. Suono un poco la chitarra, mi piace cantare con gli amici. 
Fabrizio De André
I Beatles
Un giorno lontanissimo ho incontrato Lorenzo Ostuni. Prima sulle pagine di una rivista, e dieci anni dopo nella sua Caverna di Platone a Roma. Sono stata a contatto con lui a diverse e veloci riprese. Rappresenta un innesto perenne nella mia vita.

È impossibile raccontare Lorenzo, certamente il più grande studioso di simboli vissuto sul nostro pianeta. La sua passione per la conoscenza antica e profonda – una passione che per lui fu una necessità vitale – ha alimentato la mia. Negli anni '70 mi incoraggiò a proseguire sulla mia strada. Fortunatamente le sue parole mi hanno sostenuta nel cammino.
“Tra il quinto secolo avanti Cristo e il secondo-terzo secolo dopo Cristo si composero quattro successivi significati della parola “terapia”. Il concetto di terapia si formò nel rapporto tra i servi e i padroni nella Grecia del V sec. a.C. Il significato era “corteggiamento”: dei servi nei riguardi dei padroni, per annettersi i loro servizi; dei padroni nei riguardi dei servi, per non avere servizi ingannevoli (i servi potevano avvelenare i padroni). Nessuna medicina può vivere se non c’è una parte di corteggiamento. Presume una cultura della comunicazione che deve essere precedente al lavoro di “scavo” psicoterapeutico.
Nel II sec. a.C. significava “servizio”. Il servo si prendeva premura del padrone e viceversa. Il rapporto tra servitù e padroni era arrivato a livelli straordinari. I servi erano gli educatori e curavano la “gens”. I più grandi intellettuali erano i servi e la medicina era affidata ai servi.
Nel I sec. a.C. significava “cura”. Il servo era il clinico della famiglia e possedeva il senso per curare la famiglia. E il padrone curava il servo. Curare è una funzione d’amore prima che conoscitiva. A quel tempo, terapia voleva dire anche “culto”, e di questo significato non si ha più memoria. I templi erano le cliniche dell’antichità.
La metodologia dell’analisi del sogno, come prevenzione-diagnosi-prognosi-inizio di rapporto, rispetta i quattro livelli di terapia, e certamente portava a guarigione anche allora.
Dovrai essere medico con queste quattro caratteristiche. È un programma massimale di ribellione a tutto quello che esiste oggi, perché nulla ha questo senso di compiutezza”. (Lorenzo Ostuni, Roma, 6 gennaio 1989)

Il Cerchio di Firenze mi è piombato in mano, sotto forma di libro, a causa di un caro amico, a cui mi ha sempre unito una forte telepatia. Ero ancora sufficientemente giovane per non aver intrapreso alcuna strada spirituale, e i libri del Cerchio mi aiutarono a trovare il senso logico dell’universo, degli avvenimenti, della relazione fra le persone, delle difficoltà e dei dolori della vita. Non dico che sia stato facile, non lo è tuttora. Però man mano che leggevo era come se ritrovassi qualcosa di già conosciuto. Anche la lettura di Yogananda mi diede la stessa impressione. Cambiarono completamente il mio approccio al senso della vita e  alla visione dell’universo. Anche se correntemente non è ritenuto etico far scivolare riflessioni spirituali nel percorso di terapia, è pur vero che a certe domande che le persone mi hanno rivolto, al culmine dello sconforto, non ho avuto altre parole che le riflessione di questi Maestri.
 
Nel 1988 mi iscrissi alla scuola di Kung Fu del Si-Fu Paolo Cangelosi, che aveva appena aperto a Milano. Negli anni che seguirono feci del mio meglio per studiare i molti stili che la scuola insegnava: Tang Lang, Shaolin, Wing Chun, Tai Chi Chuan stile Yang, Hung gar, Qi Gong e molto altro. Anche se mi sarebbe piaciuto, ero decisamente troppo avanti nella vita per diventare un'atleta da calci volanti. Tuttavia la particolare impostazione del Si-Fu Cangelosi, che prevedeva anche lo studio di aspetti teorici dell'arte marziale, mi permise di ottenere una capacità di concentrazione inusuale, di sviluppare la mia parte guerriera, di combattere, di imparare a reagire; di valutare con attenzione l'ambiente in cui mi trovo, sempre; di essere leggera e non farmi percepire dagli altri. Furono anni particolari, perché studiare tanti stili tutti insieme non fu una cosa semplice. Ma a quel tempo ho vissuto di questo, l'arte marziale era davvero la mia vita. Mi sono divertita tantissimo.
 

Elisa Penna
Quando il professor Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, mi portò negli uffici della Disney, pensavamo tutti quanti che la mia presenza lì fosse solo casuale. Invece ad aspettarmi c’erano Paperino Quack, Paperinik e la donna più straordinaria che abbia conosciuto, il tutto nella sola persona di Elisa Penna. Ridacchierebbe, se fosse qui. E poi mi darebbe un qualche ordine dei suoi, condito con un’esclamazione salace. Mi manca molto. Abbiamo lavorato insieme quasi sei anni, tutti i giorni, a uno dei progetti più belli a cui mi sia capitato di dar vita.
Sono entrata come testa di ponte del Telefono Azzurro. Poi lei mi tenne con sé per scrivere i pezzi di redazione. Ho scritto delle storie per “Bambi”,  ma la aiutavo a correggere di tutto: calendario, pezzi altrui, i pezzi di Emilio Nessi, controllo dei fumetti esteri, mi affidò il Gabbiani News, cioè tutto ciò che richiedeva una mano e una sensibilità particolare. Proprio per il ruolo in cui sono entrata, mi ha insegnato passo passo il modo in cui lavorava lei. Si appoggiò a me quando iniziarono le pubblicazioni di “Cip e Ciop”. Curavo le relazioni con i lettori. Fu molto impegnativo, poiché si trattava di bambini piccoli, e lei chiese che fosse data adeguata risposta a ogni lettera. Ho avuto corrispondenza con circa cinquemila bambini e ho letto e interpretato, in modo professionale ma giocoso, circa tremila disegni.
Una delle prime cose che ho fatto con Elisa fu di andare a Roma in occasione dell’uscita del disco di Fabio Concato “051222525”. Concato tenne una conferenza stampa per questo disco, insieme al Telefono Azzurro e ai Direttori di Topolino. È un ricordo dolcissimo. Andammo a pranzo con lui. Un uomo semplice, straordinario per questo, e quietamente simpatico. Elisa mi forzò a partire, e oggi son contenta di averlo fatto.
Ricordandola, Veronica Di Lisio ha raccontato il suo primo approccio con lei, riportandoci alla mente come Elisa sceglieva i suoi collaboratori: in modo sottile, basandosi sulle piccole cose, a cui dava sempre un'importanza straordinaria. Elisa le diede due raccomandazioni, quelle che dava a tutti – a tutti quelli che avevano orecchie per sentirle: “Semina la speranza. E ricordati che tu stai lavorando per l'altro, che è più importante di te”. L'odierno giornalismo è privo di questi principi, che hanno reso unica Elisa Penna e, aggiungo io, uniche le persone che hanno davvero voluto imparare da lei. A Elisa era molto cara la figura del buddhismo Tara, e dava molta importanza alla compassione, ma soprattutto al fatto di intuire l'azione, guidata dalla compassione, che fosse la più efficace, quella che aiutasse la persona con cui aveva a che fare a seguire veramente il suo cammino. Da là traeva infinito amore, psicologia e profonda competenza, con cui quotidianamente lavorava. Non fu uno scherzo imparare. Non è stato uno scherzo lasciarla andare.

Ma Satiam Shurta insegna ancora le Danze sacre di Gurdjieff. Fu un impatto splendido, quello con lei, la musica e il movimento danzato. Un movimento diverso da tutti gli altri, perché praticare le Danze di Gurdjieff significa meditare. Shurta le insegnava insieme ad alcuni esercizi, durante i quali, per esempio, dovevamo ripetere davanti agli altri allievi le semplici sequenze apprese: il gioco non era quello di ricordare perfettamente, ma quello di non sconvolgerci davanti ai nostri inevitabili errori, a cui gli spettatori assistevano. Imparare a non scomporsi dopo un errore, a non farsi notare, a non disturbare il resto del gruppo: l’insegnamento delle Danze vuole che si ritorni, fermi, al nostro respiro, ricominciando quando ci sentiamo di tornare nella corrente.
“Liberarsi dall’ipnotismo, poiché lo stato abituale dell’essere umano è una sorta di sonno ipnotico. Tutto ciò che si fa, lo si fa in un sonno psichico, così profondo e sottile, che sono necessari sforzi grandi e lunghi per uscirne. Per fare questo, però, occorre in primo luogo saperlo e vederlo. Lo sforzo in questo lavoro su noi stessi è uno sforzo che implica la presenza cosciente e lucida di tutto l’essere: pensiero, sentimento, percezione e sensazione di sé, il tutto simultaneamente. (Claustres su Gurdjieff)
Poche parole, molta musica, molto lavoro, molto se stessi. Shurta conosce i segreti del risveglio.

Giovanni Feo
Complici alcune trasmissioni televisive che andavano in contemporanea, con David stavamo raccogliendo materiale sulle differenze tra gli emisferi cerebrali per un lavoro di gruppo sui simboli rappresentati nei crop circles inglesi. Quella sera però la sincronicità esagerò, e in una di queste trasmissioni comparve Giovanni Feo, che parlava delle vie cave etrusche. Fummo molto colpiti dai contenuti ancestrali del lavoro di Giovanni, che toccavano l’antico culto della Dea e l’ascolto del territorio. Nacquero così le nostre sortite in Maremma, terra fino ad allora praticamente sconosciuta, e da quel tempo ho coltivato l’idea, oggi realizzata, di raccogliere i residui simboli etruschi in un sistema fruibile. Molto lo devo alla pazienza di Giovanni, che ha vissuto una vita ostinatamente controcorrente, mantenendo vivi i siti snobbati dall’archeologia ufficiale e, soprattutto, mantenendo viva la spiritualità dei nostri antenati con profondità di ricerca e intenso ascolto della terra su cui si cammina. Molto lo devo a David, che trasferendosi in Maremma per diversi anni ha fatto il possibile per raccogliere la sapienza di Giovanni, rimappare il territorio e imparare a memoria percorsi non accessibili e, soprattutto, ignorati. Lui continua a camminare, io pure.



Giulia d’Ambrosio