Gli antidepressivi sono tra i medicinali più prescritti nel mondo e producono un giro economico dell’ordine di miliardi. Ogni principio attivo messo in commercio deve passare attraverso la sperimentazione clinica umana e i risultati acclarano l’efficacia del farmaco.
Come abbiamo già scritto su questo blog, non sempre le sperimentazioni cliniche vanno a buon fine e un terzo di esse non vengono né pubblicate né segnalate. Spesso quindi l’efficacia scientifica e clinica delle sperimentazioni, che documentano il risultato positivo di una certa molecola medicinale, è perciò filtrata a seconda del risultato stesso.
Sugli antidepressivi sono stati recentemente condotte delle metanalisi. La metanalisi è un lavoro scientifico che prende in considerazione tutti i lavori scientifici pubblicati fino a quel momento su un certo argomento. Ne riprende i dati, li processa e verifica se le singole conclusioni dei singoli lavori scientifici sono coerenti e se le indicazioni cliniche a cui hanno dato origine sono corrette. L’Autore delle metanalisi di cui trattiamo è John Ioannidis della Stanford School of Medicine.
La prima metanalisi da lui condotta era costituita dai dati proposti alla Food and Drug Administration per l’approvazione a uso terapeutico di 12 principi attivi antidepressivi. Solo metà delle sperimentazioni cliniche avevano effettivamente avuto un risultato positivo; l’altra metà dei dati era stata presentata in modo distorto, per farli risultare comunque utili all’attività di terapia clinica, oppure venivano francamente tralasciati. Mediamente tutti questi principi attivi risultavano dare un modesto beneficio, e non i grandi vantaggi decantati e suggeriti dalla letteratura ad uso dei medici.
La seconda metanalisi sugli antidepressivi correlava i dati che mettevano a confronto l’effetto del trattamento farmacologico e la gravità della forma depressiva. La differenza con il placebo, analizzata tramite programmi di statistica, diventava davvero significativa in senso clinico solo in una minoranza di pazienti con forme di depressione endogena (depressione maggiore) molto gravi. Ma persino quest’ultimo non era un dato a favore del farmaco: non aumentava di efficacia l’antidepressivo: era il placebo a perdere il suo effetto. I benefici in tempi brevi sono pochi, e gli effetti a lungo termine, protettivi e dannosi, di questi farmaci sono molto poco studiati.
Questi dati, tuttora poco conosciuti, lanciano una riflessione importante sull’efficacia delle medicine antidepressive: la loro attività NON È così importante e ampia come il marketing farmaceutico vuole farci credere. Ioannidis, impressionato, afferma: “Mi chiedo come l’uso di piccoli trial clinici con risultati non rilevanti, interpretazioni inappropriate dei risultati statistici, progetti di studio manipolati, selezione faziosa della popolazione sottoposta a studio clinico, follow-up troppo brevi e una presentazione dei risultati distorta e selettiva abbiano potuto costruire e nutrire un tale mito sull’efficacia evidence-based (scientificamente provata) degli antidepressivi!”. E si augura che vengano effettuati studi più seri e più accurati, a lungo termine, che diano delle prove standardizzate davvero concrete sull’effetto di questi farmaci.
A questo processo, auspicato da John Ioannidis, non è ancora possibile arrivare, a causa delle troppe pressioni ideologiche ed economiche che minano la seria ricerca del benessere per ogni creatura, noi compresi.
Fonte:
Philosophy, Ethics and Humanity in Medicine : Ioannidis JPA - Effectiveness of antidepressants: an evidence myth constructed from a thousand randomized trials? – Phil Ethics Human Med, 2008, 3 (14)